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Migranti ma non solo. Una società che non sa gestire le emozioni

C’è da domandarsi dove sia finita quella cultura che consente la comprensione, il controllo delle pulsioni, delle emozioni.

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L’episodio di Fermo, che ha causato l’uccisione del nigeriano, di cui si occuperà chi di competenza, ha fatto emergere un dato inquietante, come se ancora non lo si fosse notato. Chi difende l’aggressore, legittimando così l’idea che la violenza , sia verbale che fisica, sia concessa e permessa, e chi condanna fortemente l’accaduto, con altrettanta foga. Quindi, ciò che viene sempre più in luce, è un eccesso di aggressività.

Ne ho parlato in passato, e lo ribadisco, oggi più che mai, in un clima così difficile dal punto di vista socio-economico, di instabilità e di precarietà, ciò che aumenta è la rabbia. Lo sfogo impulsivo, cosiddetto di pancia.

Senza mediazioni, senza remore. Lo vediamo ogni giorno, sia nei social, che nel nostro quotidiano. Non c’è più rispetto per il nostro prossimo, tutto è lecito e legittimato, specie sul web, da uno schermo che protegge. Anche le morti, ormai sono diventate usuali e banali, neppure più fanno scalpore e notizia. Donne uccise per mano violenta, famiglie sterminare a causa di precarietà, quindi un sentimento che prevale il fallimento personale e familiare. Passano così, indifferenti. Si leggono e si passa ad altro, magari con con la solita battuta di sempre. “È colpa di…”
Morti viste spesso come soluzione, magari estrema, ma non più di tanto. Come scrive il noto Andreoli “L’episodio di Fermo va inserito in una cornice di civiltà disastrosa. Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso.”

Ed è vero. Sostanzialmente siamo in condizioni di regressione antropologica, qui si torna al tempo dei primitivi, perché si da spazio alle pulsioni. E se nel nostro prossimo non riconosciamo un simile, ma un diverso, ecco che ci mettiamo in guardia e spesso ciò che scatta è il desiderio di combatterlo. Questo è guarda in speciale modo l’immigrazione. Si ha paura che possa levarci qualcosa, che ci arrechi danno, possa addirittura levarci spazio vitale. Sempre Andreoli afferma che “ è sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio. Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto.” Già. E quindi c’è da domandarsi dove sia finita quella cultura che consente la comprensione, il controllo delle pulsioni, delle emozioni. Una cultura che si fondava sull’amore, sulla fratellanza, sul rispetto, l’osservanza delle regole e del vivere civile.

La psicoterapeuta e psiconeuroimmunologa Sabrina Ulivi ed il ricercatore sociologo epigenetista Giovanni Cozzolino, del Centro Clinico Ulivi di Pistoia, che si occupa di ricerca e protocolli terapeutici contro le patologie da Stress cronico, affermano che in un clima di così grande incertezza è facile veder emergere le antiche pulsioni, oggi mal regolate, non più gestite dai sistemi neuronali. “Le barriere, o costruzioni socio-culturali su cui è basato il nostro modello di vita sociale, determinano quel ” super-io collettivo ” che è il filo conduttore del nostro agire nelle relazioni sociali. Un potenziale pericolo a carattere generale nei confronti di una comunità determina nei singoli soggetti un modello di comportamento difensivo ove le azioni vengono poste in essere a livello emotivo, nel quale, in una ottica neuropsicologica le aree celebrali interessante all’azione sono unicamente quelle del sistema limbico in via diretta. Le capacità analitiche vengono by-passate a favore di una maggiore velocità decisionale a carattere emotigeno in relazione alle situazioni ambientali future lette come pericolose o potenzialmente pericolose.” Afferma Cozzolino.

“Le regioni celebrali interessate sono quelle della Amigdala, una ghiandola importante che agisce amplificando la velocità di risposta aggressiva di “attacco/fuga”, classica del sistema di difesa di tutti i mammiferi.

Questa dinamica accade in condizioni di forte Stress emotivo e fisico, che è generato dal clima di grande incertezza sociale.” Conclude così Ulivi.
Ovvio che dove l’individuo appartiene ad un alveo protettivo e accudente, che sia essa famiglia o altra comunità, vediamo lo svilupparsi del senso adattogeno che riesce a controllare il suo stato emotivo. Altri individui, con altre situazioni, no.

Si parla spesso dei migranti, perché oggi sono al centro dei media, ma c’è molto di più che fa capire quanto sia arrivato al culmine la condizione di non gestione, o mala gestione delle emozioni. Le violenze sessuali sono un altro esempio, il bullismo, le relazioni umane in genere. Basta osservare le file al supermarket, alle poste, in altri luoghi di attesa per vedere quanto sia cambiata la società, nel tempo. Quanto siamo più irascibili e perché?

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Sarebbero tanti gli episodi da citare, spesso li vediamo come spettatori sbigottiti ed in totale silenzio. Ed è davvero terribile, stiamo diventando un popolo “incivile”. Nel senso letterale del termine.

La crisi economica, certo, non aiuta. Ha sicuramente dato una mano alla paura, alle incertezze. E quando c’è paura, da che mondo è mondo, c’è sempre violenza. Un tempo la Chiesa , la Parrocchia, avevano un ruolo di protezione ed accoglienza, quasi luogo di saggezza. Siamo stati capaci di demolire anche questo, come tutte le agenzie di socializzazione, dalla famiglia in poi. Nessun ruolo, ormai, più nessuna guida.

La famiglia è scoppiata. Un tempo il padre era la forza, la mano ferma, la mamma accudente e protettiva. Era un sistema perfetto. Poi, la svolta. Non stiamo a sindacare su questo, qualcosa andava sicuramente rivisto in questo format sociale, ma siamo passati dal “Padre padrone” al “Padre inesistente”. Dalla mamma accudente alla madre manager che si sobbarca sulle spalle due ruoli e la fatica del quotidiano che non è mutata. Vie di mezzo, assenti. Talvolta si vedono solo eterni Peter Pan, madri e padri. Ed in mezzo, ignari ed innocenti, i figli. Oggi ormai adulti “ acerbi” che vediamo. Anch’essi in forte difficoltà ad educare, perché non sanno farlo. Noi non gli abbiamo insegnato a farlo.

Che fare, quindi. Tornare al valore dei rapporti umani, all’educazione, all’amore per il prossimo, al rispetto. Questo Paese, attraverso la scuola e quindi la cultura, deve cercare di formare gli uomini e donne saggi, intelligenti di domani. Perché c’è una ignoranza spaventosa. Intervenire con urgenza sui giovani, con la scuola, è sicuramente più facile perché sono come pagine bianche di un libro da scrivere. E con gli adulti occorre dimostrare sostegno, vicinanza, protezione, attenzione. E questo è compito dello Stato. Investire in cultura è importante, come lo è investire in sicurezza. Lo abbiamo sentito dire più volte dal Governo. Ma non basta. Per dare stabilità emotiva serve una vita stabile. Migliore. Senza stress. Con un processo vitale tranquillo. Serve tornare a credere nell’umanità, nelle persone, nelle Istituzioni. Se così non sarà, possiamo dire davvero la parola fine. Purtroppo ciò che emerge oggi, specie sui social dove non si nasconde più il proprio pensiero perchè lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, è solo esteriorità di un ego smisurato e ribelle. La voglia, il desiderio di esserci, di esistere, in un post, un twitt, con una foto, un pensiero, sta a significare che la società si sente sola. E’ un grido di allarme, possiamo dirlo. Ed oggi, a differenza di ieri, quando ci si esprimeva a casa, magari in malo modo, si agiva male solo in famiglia, tramite questi mezzi diventa un’azione diffusa, trasformandosi in vera e propria propaganda di atteggiamenti da emulare. Non c’è la ricetta magica, neppure l’invito a lasciare il mondo dei social è possibile, ormai. Invertibile, diciamolo pure. Quando il primo pensiero della mattina è pubblicare un post , al mondo dei contatti, c’è poco da dire. C’è solo una cosa da fare, ed è quella di partire da noi stessi. Iniziare ad invertire la tendenza a partire dalla propria famiglia, dai propri amici, dal nostro intorno.
Dando l’esempio, ricostruire quel sistema valoriale ormai largamente perso. Non tutto è perduto, però, se ci rimbocchiamo le maniche tutti, ce la possiamo fare.

Fonte: Affaritaliani

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