
Tutt’altro genere d’informazione
di Dania Meoni

Tutt’altro genere d’informazione
L’etimologia del sostantivo “genere” deriva dal latino genuse dal greco antico γένος «genere, stirpe», γένεσις «origine», γίγνομαι «nascere».
È un termine, nel nostro Paese, strettamente connesso all’analisi grammaticale, dove fin sui banchi di scuola ci hanno insegnato a declinare nomi e aggettivi al maschile e femminile, con un maschile che evoca una consolidata idea di potere e un femminile che sottende a qualcosa di subordinato.
È anche un concetto utilizzato nelle scienze sociali per quanto concerne la rappresentazione dell’identità: per i sociologi rappresenta l’insieme delle aspettative e dei comportamenti socialmente appresi.
Studi di antropologia di genere e il confronto con le altre culture indicano chiaramente quanto i generi siano culturalmente-e non biologicamente-determinati.
È anche attraverso il processo di socializzazione, mediante cui vengono insegnate e apprese le aspettative che la società ripone in ognuno di noi, che si indirizzano e si costruiscono le identità di genere. Le molte agenzie di socializzazione quali la famiglia, la scuola, i centri religiosi, la cultura popolare e i media influenzano grandemente i modelli di pensiero sociali.
Simone de Beauvoir, saggista e filosofa francese del secolo scorso, scrive nel 1961 un trattato dal titolo Il secondo sesso, in cui elabora un’illuminante concezione della donna in quanto tale, sollevando annose questioni quali: la donna è tale perché portatrice di un utero?
È femmina perché a livello biologico secerne materiale ovarico? E ancora: come rispondere a chi esorta al genere femminile di essere, restare, divenire donne?
I corpi per natura sono biologicamente e fisiologicamente segnati all’origine da una specificità che rende il corpo maschile irriducibile a quello femminile e viceversa. Questo rappresenta il sesso. Il genere è tutto ciò che di culturale e sovradeterminato va a influire sul sentirsi intimamente uomo o donna. Nella nostra cultura linguistica la parola genere è soprattutto un concetto grammaticale legato spesso ad articoli determinativi, indeterminativi o partitivi, aggettivi o sostantivi.
Il linguaggio è a sua volta un importante veicolo di costruzione della realtà: il genere, per primo, contribuisce a foggiare la nostra identità fisica e sociale. Dalla formazione di sillabe e suoni linguistici si formano parole che rinviano a cose, stati d’animo, concetti e significati convenzionalmente stabiliti all’interno della collettività.
Lo strumento linguistico è quindi la forma culturale primaria attraverso cui vengono alla luce e sono trasmesse cultura e tradizioni: è una dimensione costitutiva della stessa riflessività cosciente. Tramite il linguaggio si ha così l’emergere di nuovi soggetti, universalmente validi per l’intera collettività: mutamenti esterni possono influenzare il linguaggio, così come variazioni di quest’ultimo possono favorire nuove forme di esperienza dentro un contesto sociale in cui sono formulati.
Il linguaggio è elemento costitutivo della realtà, connesso all’agire e ai modelli culturali che lo regolano: c’è stretta interconnessione tra l’atto performativo del fare e il linguaggio: Dire è fare, parlare è fare delle cose con le parole. L’aspetto pragmatico del parlare come pratica sociale è un elemento costitutivo primario dell’agentività umana: la lingua plasma e rappresenta la nostra personale visione del mondo, condizionando il nostro modo di vedere la realtà.
Non si tratta di un comparto stagno, ma è un sistema dinamico che si adegua ai cambiamenti attraverso l’uso che ne viene fatto. Molte sono le società che adottano sistemi linguistici con approccio androcentrico, sviluppando l’idea secondo cui il maschile sia inclusivo di tutto. All’interno dei gruppi sociali prendono campo gli stereotipi, che contribuiscono a diffondere rappresentazioni disomogenee, inaccurate e falsificate.
Il linguaggio di senso comune, diffuso largamente dai mezzi di comunicazione, è portatore sano di tali stereotipi: sotto il profilo della lingua di genere, imparare a usare le parole adeguatamente significa modificare i rapporti sociali di potere precostituiti.
Come sostiene la linguista Fabiana Fusco, lo studio delle parole si configura come una peculiare via di accesso alla conoscenza delle dinamiche culturali, permettendo di individuare formulazioni valutative implicite, ma chiaramente espresse nel parlare quotidiano.
Ministra, sindaca, ingegnera sono parole come le altre, né belle né brutte: l’unica differenza sta nel fatto che i parlanti non sono sempre abituati a pronunciarle o scriverle. Solo continuando a discutere e far circolare i nuovi termini attraverso grammatiche, dizionari, saggi di divulgazione scientifica e i mezzi di informazione, si potrà giungere a un cambiamento nei comportamenti linguistici realmente condiviso dalle cittadine e dai cittadini. Interessante anche il punto di vista della studiosa Patrizia Violi, la quale spiega che il genere non include soltanto una categoria grammaticale, ma anche identitaria: questo genera asimmetrie semantiche, perché da sempre il femminile è antitetico rispetto al maschile, è ciò influenza una visione linguistica androcentrica.
Il principio del maschile come genere dominante è causa di invisibilità/eccessiva visibilità delle donne: da un lato se ne oscura la presenza sottomettendole a una morfologia maschile, dall’altro invece la presenza femminile viene talmente enfatizzata da apparire come deviante rispetto alla norma.
Anche nei testi giornalistici ricorrono non di rado storture e asimmetrie semantiche che consistono principalmente nella valenza di due significati diversi e spesso contrapposti di aggettivi o sostantivi, a seconda che questi siano declinati al maschile o al femminile: pensando al binomio maestro/maestra, si utilizza il primo termine per definire un’importante carriera musicale, artistica e accademica, mentre con il secondo si identifica una insegnante di scuola primaria. Lo stesso vale per la coppia direttore/direttrice o segretario/segretaria: a parità di ruolo, le donne stesse si fanno categorizzare al maschile i termini segretaria-direttrice rimandano ontologicamente a cariche subordinate e meno importanti.
Questi hanno però il rischio di diventare casi di automutilazione e boomerang comunicativi ad alto impatto educativo-sociale: come dimenticare il casus belli della direttrice d’orchestra di origini lucchesi Beatrice Venezi, la quale ha avuto addirittura l’ardire di rimproverare Amadeus sul palco dell’Ariston per essere stata presentata al femminile? Amadeus, con forte imbarazzo, ha semplicemente risposto in mondo-visione che Venezi si sarebbe assunta ogni tipo di responsabilità per tale rimostranza, tuttavia sarebbe risultato davvero simpatico e performante, da parte sua, ribadire semplicemente: “Mi scusi…credevo fosse una donna!”.
Ancora più forti sono i casi di simmetria qualitativa, dove molti aggettivi declinati al femminile creano accostamenti suggestionanti che rimandano a turpiloqui sessuali: buon uomo non ha certamente lo stesso significato semantico di buona donna, così come uomo della strada, rapportato alla locuzione donna della strada, oppure l’attributo libero, paragonato al corrispettivo femminile libera. La forma maschile denota così determinazione, decisione, potere, statuto, indipendenza e libertà, mentre quella femminile sembra indicare debolezza, fedeltà, servilità, dipendenza e sesso. Per non parlare poi di termini come decisionista/intransigente/grintoso/grintosa: curioso che accostati a uomini ne indichino qualitativamente persone di carattere, mentre riferiti a una donna ne sottintendano una di pessimo carattere. Forse non ce ne rendiamo perfettamente conto, ma ci troviamo immersi in un sessismo linguistico che supporta e alimenta la segregazione di genere, che contribuisce a bloccare l’avanzamento di carriere al femminile.
Alcuni studiosi sostengono che intervenire alla modifica del linguaggio, talvolta anche tendendo a ridicolizzare le professioni al femminile, non porta a un vero affrancamento sociale della donna. Ciò che però forse dimenticano è che il linguaggio tende a dare forti suggerimenti e indirizza a pensare in un certo modo. Ne parlava già, nel V secolo a.C., il grande sofista Gorgia: la lingua è un forte strumento che esprime l’esistenza e il potere di chi la usa, perché contiene in sé un forte potere ammaliante. La lingua si modifica attraverso l’uso che se ne fa, solo così quello che non “suona bene” all’orecchio diventa accettato e condiviso dalla massa.
È altresì vero che modificare l’uso di un’abitudine linguistica richiede tempo e propensione alla condivisione tra le persone, cosa non semplice, visto che anche persone convinte sull’adozione di un registro linguistico adeguato al genere, nel quotidiano si ritrovino invece, senza riflettervi, ad adottare termini in stile androcentrico. Si tratta non solo di scelta, ma anche di una buona dose di consapevolezza: perché le modifiche al modo di parlare, seppur lente e pachidermiche, mettono in moto un inarrestabile cambiamento anche nel modo di pensare e riflettere. L’utilizzo di termini al femminile tende infatti ad aumentare in maniera direttamente proporzionale all’ingresso di sempre più professioniste nel mondo del lavoro.
“Ciò che non si dice, non esiste”, ammonisce la linguista Cecilia Robustelli: “Certi termini femminili suonano male? Non c’entra la fonetica: se maestra, monaca, coniglietta, pastora, deportata suonano bene, è difficile sostenere che ministra, sindaca, prefetta, questora, deputata suonino male!“ La ragione è un’altra: esprimere al femminile un contenuto semantico per tradizione associato al maschile, crea sconcerto. La preferenza per l’uso del maschile, molto diffusa anche tra le donne, riflette ancora una certa esitazione ad accettare che certe figure professionali siano riconducibili a figure femminili. Tuttavia, utilizzare il maschile per donne che ricoprono professioni e ruoli di prestigio non solo disconosce l’identità di genere, ma addirittura nasconde le donne stesse”.
Per quale motivo infermiera si può dire, mentre al sentir pronunciare la parola ingegnera in molti/e aggrottano il sopracciglio? Perché non siamo ancora abituati a pensare a donne incerti ruoli lavorativi, pertanto, l’oscuramento linguistico della figura professionale femminile ha come conseguenza la sua non comunicazione e, sostanzialmente, la sua negazione. A differenza di ciò che molti pensano, ovvero che l’ottenimento di un linguaggio rispettoso del genere non vada altro che a ingigantire le differenze cognitivo-sessuali tra uomo e donna, secondo Robustelli per ottenere la parità di diritti di entrambi non è dignitoso, né tantomeno efficace cancellare tali differenze per rendere la donna uguale all’uomo ma, al contrario, si richiede di evidenziare queste differenze per far emergere e valorizzare l’identità di genere.
E giacché dal punto di vista dell’importanza nella società, delle posizioni lavorative e istituzionali occupate, del riconoscimento dei diritti, la bilancia pende ancora oggi dalla parte maschile, è necessario riequilibrarla valorizzando il genere femminile partendo dalla questione linguistica: è infatti sempre più urgente e necessario cominciare ad affermare la presenza delle donne attraverso un uso della lingua che le renda visibili, per poter poi riconoscere e valorizzare le rispettive differenze.
Sabatini, già nel 1987, diceva che l’uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico.
Ebbene, da allora sono trascorsi 35 anni.