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Non è un affare di famiglia: ripensare la disabilità come questione sociale per il bene comune

di Emanuela Goldoni ( Professionista della Comunicazione Digitale).

“Non è un affare di famiglia: ripensare la disabilità come questione sociale per il bene comune”.

Qui l’intervento di Emanuela Goldoni, che ospito con onore, espresso durante il Web Marketing Festival 2022, perché il messaggio possa arrivare ancora più potente e risuonare nelle teste di tanti.

“Mi preme condividere con voi una riflessione sul tema disabilità dal mio punto di vista di mamma di Iacopo, lavoratrice e professionista in congedo straordinario. Lo faccio qui, in questo contesto, perché non potrei essere in un posto migliore: ho la possibilità di raggiungere contemporaneamente famiglie, aziende, istituzioni, media policy maker.

E anche se è vero che parlare a un pubblico ben definito aiuta a delineare il perimetro del discorso e gli interlocutori, oggi faccio uno strappo alla regola e mi appello all’etimologia della parola comunicazione: “mettere in comune”, perché come riporta il titolo di questo intervento:

la disabilità non è un fatto privato, non è una questione di famiglia, ma una esperienza che ha un impatto su tutte le persone che vi si relazionano.

Credo infatti che solo partendo da questo presupposto, quello di abbandonare la visione che vede ancora oggi la disabilità come un tabù, possiamo auspicare a una società realmente inclusiva, accogliente, preparata, informata e coinvolta.

La nostra storia

Faccio un passo indietro. L’anno scorso, di questi tempi, mio marito ed io stavamo compilando il PVB (Primo Vocabolario del Bambino), un adattamento della versione inglese del McArthur test per valutare le competenze della comunicazione e del linguaggio del nostro bambino.

Questa indagine ci è stata suggerita proprio dalla figura della neuropsicologa dell’età evolutiva alla quale ci siamo rivolti, più per uno scrupolo mio, che per un reale allarme da parte dei pediatri.

Questi ultimi infatti hanno più o meno messo a tacere le mie preoccupazioni circa un ritardo del linguaggio di mio figlio con il classico: “Non si preoccupi, non trasferisca queste ansie al bambino, perché non ha nulla”.

L’esito del test conferma un oggettivo ritardo del linguaggio. Con il referto della neuropsicologa ci rivolgiamo alla logopedista, che prima di iniziare un percorso con noi vuole sincerarsi che il ritardo del linguaggio non sia dovuto a cause biologiche legate a deficit uditivi. Non bastano gli esiti delle otoemissioni (quelle dello screening neonatale) né il BOEL test (entrambi passati). Ha proprio bisogno di una valutazione completa da parte degli audiologi e audiometristi. 

E così sarà: passiamo l’estate, con il dubbio che nostro figlio possa essere sordo: dubbio che sarà confermato a settembre 2021 con l’esito della risonanza magnetica: il nervo cocleare delle orecchie di Iacopo è così sottile che a malapena si riesce a capire se sia presente o meno.

E proprio da settembre 2021 in poi inizio a sospettare che la disabilità, nel caso specifico, la sordità sia in realtà un evento che di inclusivo, accogliente, informato, preparato e coinvolgente ha poco. Eppure la società sembra voler raccontare una storia diversa: è nata la figura del disability manager, si sta diffondendo una cultura aziendale aperta alla diversità e inclusone. Sono state lanciate recentemente sul mercato le Barbie con impianto cocleare. Non siamo già abbastanza inclusivi?

1.      La disabilità è complessa

La verità è che la disabilità non è un progetto a sé stante.

Non è la sola presenza del disability manager. Né l’affermarsi di una cultura D&I. Né il lancio sul mercato della Barbie con l’impianto cocleare o in carrozzina. La disabilità non si esaurisce con un verbale della 104 o di una 381. La disabilità è complessa, perché non riguarda solo chi ne è portatore o portatrice, ma si propaga come un’onda e coinvolge chiunque abbia a che fare con la sua gestione: questa infatti ha un impatto sulla famiglia, sulla vita del caregiver – spesso si tratta di mamme lavoratrici, costrette o ad abbandonare i propri percorsi professionali o a prendersi congedi straordinari, perché ci si aspetta in fondo che siano le mamme a farlo, no? Ed è un attimo passare da professionista a “mamma di un figlio disabile”, con tutti i risvolti che questo scenario potrebbe presentare. Cosa comporta ad esempio, uno stop lavorativo di 6 mesi, 1 anno o 2 anni per assistere un figlio o un genitore disabile? Se esiste nel nostro paese la child penalty, possiamo parlare di disability penalty?

E ancora, sempre a proposito di aziende: verrebbe da chiedere alle aziende che si dichiarano inclusive, magari alcune sono presenti proprio qui oggi, se abbiano investito in un design altrettanto inclusivo delle loro digital property in fase di progettazione.

E ancora, la disabilità ha un impatto sulla quotidianità dei nidi, delle scuole di infanzia, sulla scuola primaria: spesso la didattica non è adeguatamente preparata a gestire un bambino con una disabilità; va in panico quando è costretta ad accettare qualcosa di diverso dalla routine che era riuscita, con fatica, a stabilire in una classe di bambini sani.

E ancora, la disabilità ha un impatto sui patronati e i CAF che li coglie impreparati, perché non sempre il personale è aggiornato sugli iter e sulle normative specifiche per il tipo di deficit.

E ancora, la disabilità coinvolge la PA e gli enti preposti all’assistenza del cittadino; questi hanno chiaramente e inspiegabilmente qualche problema di accessibilità, usabilità e chiarezza espositiva, quando si tratta trasmettere informazioni e orientare una famiglia sul che cosa si debba fare in caso di disabilità.

E ancora, la disabilità ha un impatto sui media e sulla comunicazione in senso lato: tante volte l’unico vero supporto alla comunicazione di cui avrebbe bisogno una persona sorda, ad esempio, è un sottotitolo. Oppure una organizzazione testuale più semplice, con paratassi e chiara gerarchia delle informazioni. Eppure si tende a pensare che l’unica maniera per venire incontro alle persone sorde sia la LIS.

E infine, la disabilità ha un impatto sul design delle città: quante città sono davvero a prova di carrozzina, bastone, passeggino, fibromialgia, sordo, cieco?

In tutte le situazioni descritte qui sopra, vi assicuro che chi ci si trova si sente solo e frustrato; travolto però da una solitudine mai provata prima. E sapete da che cosa scaturisce questo insolito senso di solitudine? Dalla assenza di riferimenti, dalla diformità delle informazioni, dallo scarso livello di conoscenza.

2.      La disabilità è poco nota

Più il tempo passa e più mi sono accorta che questo senso di solitudine si acuisce tutte le volte che, nel nostro caso, un normoudente parla di sordità. E tante volte si tratta di ingenuità della comunicazione che si commettono, perché la disabilità si conosce poco. Perché è sempre qualcosa che riguarda gli altri. Magari qualcosa con cui ci si nasce; purtroppo, ci rendiamo davvero poco conto che la disabilità, anche temporanea potrebbe investire chiunque.

Tornando a noi, ci tengo a precisare che sarebbe meglio parlare non della sordità, ma delle sordità, perché ogni sordo ha una storia diversa da una persona con un deficit uditivo di altra natura.

Questa tendenza da parte di noi normoudenti a banalizzare la sordità è molto diffusa. Vorrei riportare alcuni aneddoti di vita vissuta, quando spiego per la prima volta a un normoudente, che Iacopo è sordo.

Tra le frasi più gettonate:

 Guarda che è curabile

Purtroppo a oggi la disabilità uditiva non si cura, ma si gestisce, con protesi auricolari e impianti a seconda della sordità.

 Non preoccuparti, è tutto risolvibile

Purtroppo a oggi, tolte le protesi o gli impianti cocleari, la sordità rimane.

 Non per consolarti, ma guarda che c’è di peggio.

Chiaramente lo so da me che una diagnosi con prognosi nefasta sarebbe peggiore, ma non è mica una gara a chi sta peggio.

 Guarda, è superabile

Purtroppo a oggi, non tutte le sordità garantiscono un recupero uditivo e linguistico al 100%, come nel caso di Iacopo.

Oggi un sordo è molto integrato nelle imprese

Mi verrebbe da chiedere se le risorse umane delle aziende italiane abbiano mai chiesto ai colleghi sordi quanto si sentano integrati. Mi verrebbe da chiedere in particolare anche quanti sordi abbiano una carriera professionale soddisfacente. Mi verrebbe da chiedere quanti sordi in una posizione dirigenziale esistano.

Ma è sordomuto?

Il termine è caduto in disuso con la Legge 20 febbraio 2006n. 95 che sostituisce sordomuto con sordo.

Ah, è sordo. State già comunicando con la LIS?

Per fortuna oggi una persona anche con sordità grave e profonda può essere messa nelle condizioni di parlare.

Che cosa manca alla disabilità oggi? Nonostante il tema sia molto dibattuto in questi ultimi anni, tanto da essere citato sia indirettamente che direttamente in ben 8 su 17 obiettivi dell’Agenda 2030, alla disabilità manca proprio la comunicazione: l’approccio a immaginarla come un qualcosa da mettere in comune.

3.      La disabilità come questione sociale per il bene comune

Ecco perché credo che la disabilità vada affrontata insieme a tutti gli interlocutori come se fosse un progetto unico a cui chiunque abbia un ruolo nella società è chiamato a partecipare.

Partire dalla disabilità significa progettare una società e una quotidianità che non siano inclusive solo per chi convive con una disabilità, ma per tutti. Il primo esempio che mi viene in mente è proprio quello della tecnologia: ormai è risaputo che il progresso scientifico e tecnologico siano strettamente correlati alla disabilità.

Pensiamo ad esempio ai wearable device, alla robotica, fino ad arrivare al Metaverso. Sono convinta che proprio grazie alla disabilità, gran parte dei vantaggi tecnologici di cui beneficiamo oggi, noi persone normodotate, sia in termini di miniaturizzazione del design, che di ambienti più immersivi, accessibili siano proprio frutto delle nuove sfide e delle nuove domande che si pone chi è disabile.

Partire dalla disabilità significa allineare il mondo virtuale (da sempre attento all’accessibilità) al mondo fisico (che sulla carta si dichiara inclusivo), ma che nella realtà è ancora troppo escludente.

Significa attribuirne le caratteristiche di una progettualità condivisa fra più interlocutori, per superare i limiti di una società ancora pensata per persone che non esistono: tutte fisicamente e mentalmente integre, tutte con lo stesso livello di istruzione, tutte single.

Mi piacerebbe un giorno vedere attorno lo stesso tavolo: assessori, sindaci, amministratori delegati, persone disabili, designer, PA immaginare assieme non l’ennesima App inclusiva né l’ennesimo servizio inclusivo né l’ennesimo prodotto inclusivo, bensì la stessa idea di civiltà inclusiva.

La disabilità, proprio perché ci mette di fronte a problemi realici costringe e riflettere per trovare soluzioni utili che servono a innovare la società in tutti i suoi ambiti: lavoro, architettura, tecnologia, comunicazione, ad esempio.

Vi voglio lasciare infine con una domanda: 

se la disabilità tende a sparire nel mondo virtuale, perché continua a essere accentuata nel mondo reale?

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